Le zone di intensità aerobica nelle discipline cicliche di durata
1 – PREMESSA
È ben noto che la relazione tra la massima intensità di lavoro muscolare in funzione del tempo, è rappresentata da una curva, la cui dinamica evidenzia una rapida discesa nel primissimo periodo (tra il primo e secondo minuto), un brusco cambio di direzione (flesso) tra il quinto e il decimo minuto e la tendenza ad una stabilizzazione per periodi relativamente lunghi (teoricamente tendenti all’infinito).
Tale comportamento è di più facile indagine quando lo schema motorio indagato è ciclico (ripetitivo, simile a se stesso) nel corso dell’intera prestazione.
Il grafico n.1 riporta le massime velocità medie (record mondiali) che l’uomo è riuscito a raggiungere sinora nella corsa.
La tipologia e la dinamica della curva che ogni soggetto esprime nel lavoro muscolare consente, in modo indiretto, di individuarne le qualità prevalenti (atleta con caratteristiche di potenza; atleta con caratteristiche di resistenza; atleta con caratteristiche intermedie – fig.2/3/4).
Le ovvie osservazioni appena esposte implicano altrettante semplici deduzioni:
1. in termini percentuali la potenza meccanica cala del 14% dal 15°al 40° secondo e del 30% dal 40° secondo al 2° minuto primo;
2. dal 2° minuto alle due e più ore di attività continuativa, la potenza meccanica media si colloca tra il 70 e il 50% dell’attuale migliore prestazione;
3. l’analisi fatta su un singolo soggetto dimostra come un atleta di alta qualificazione e specializzazione può protrarre per oltre due ore il lavoro muscolare tra il 70 e il 75% della sua massima potenza meccanica.
In termini grossolani si può affermare che il rapido decremento delle prestazioni è imputabile all’esaurimento dei substrati più rapidi nel fornire energia per ripristinare le molecole di ATP. Così come la graduale stabilizzazione dell’intensità del lavoro meccanico è da addebitarsi all’attivazione delle vie metaboliche, meno potenti, con serbatoi più capienti.
E’ ben noto che le vie metaboliche per fornire energia alla cellula vivente sono, sostanzialmente, due: una anaerobica (citoplasmatica) ed una aerobica (mitocondriale). La nostra attenzione vuole focalizzarsi sulla seconda, con l’intento di identificare, al suo interno, possibili diversificazioni e ragionare su una serie di dati acquisiti.
2 – IL MOTORE E L’ENERGIA
L’approccio scientifico nello studio delle capacità motorie umane ha avuto, da sempre, due filoni di indagine: uno mirato all’analisi del sistema neuromuscolare nella sua accezione elettro- meccanica; l’altro in direzione bioenergetica e metabolica.
Gli studi sperimentali tendono, quasi sempre, a parcellizzare ed isolare i vari fenomeni per controllarne con più facilità l’evoluzione. Le discipline sportive di medio-lunga durata si prestavano agli studi sui processi energetici (metabolismi) e sugli adattamenti delle grandi funzioni organiche (respiratorie, cardiovascolari). Le specialità di breve durata consentivano di mettere in rilievo, soprattutto, gli elementi di macro e di micro meccanica muscolare.
I teorici dell’allenamento e, di conseguenza, gli allenatori hanno risentito di tale impostazione, enfatizzando ora l’uno ora l’altro aspetto, come se fossero entità separate e non, al contrario, perfettamente integrate e organizzate verso una funzione comune. Allorquando, poi, si è tentato di operare un’associazione, si sono commesse, a mio parere, ulteriori inesattezze. Mi riferisco, ad esempio, al concetto di “resistenza alla forza”.
In letteratura sono diversi i tentativi per definirne il significato. La resistenza alla forza non rappresenta un mezzo di allenamento ma “una delle tante espressioni della forza” e, come tale, da allenare con le opportune metodologie.
Una locuzione sottintende una definizione, una definizione sintetizza una più ampia base concettuale. In questo caso i termini “resistenza” e “forza” assumono, ognuno, un riferimento assolutamente generico. Accomunati amplificano l’indeterminazione e l’impossibilità a circoscriverne in un campo definito il significato preciso. Quando si parla di “resistenza” il pensiero si lega ai processi di rifornimento di energia e ai vari “serbatoi” da cui attinge l’apparato locomotore. Il termine “forza” lo si associa, invece, alla proprietà neuro-muscolare di esprimere tensione attraverso un sistema a base elettromeccanica. Le proprietà del motore sono una cosa, la quantità e i tipi di carburante disponibili sono un’altra. Per tale motivo si potranno avere tanti tipi di “resistenza alla forza” quante sono le espressioni di forza per quanti sono i meccanismi energetici di risintesi dell’ATP. Ritengo che sia corretto, funzionale e pratico descrivere e classificare tutti i movimenti umani e le esercitazioni a questi correlati, in base alle implicazioni di ordine meccanico e, ad esse, associare i sistemi energetici attivati dall’intensità e dalla durata del lavoro.
3 – IL CONTROLLO E LA VALUTAZIONE
L’incremento delle prestazioni in campo sportivo è da addebitarsi, sostanzialmente, allo sviluppo di metodologie atte a valutare in modo sempre più preciso il potenziale motorio degli atleti.
Questo ha permesso di individuare, con minore margine di errore, le giuste intensità e quantità del carico di lavoro per ogni singolo atleta in ogni periodo della preparazione, in modo da seguirne continuamente la risposta adattativa, ottimizzandone il rendimento.
La valutazione è legata alla misurazione, alla osservazione, al controllo, allo studio dei dati nel tempo. Operazioni che, in larga misura, ogni allenatore compie quotidianamente.
Attualmente è possibile indagare e correlare, in forma sistematica, il lavoro svolto dall’atleta con parametri fisiologici e funzionali monitorando, ad esempio, lattato, frequenza cardiaca e consumo d’ossigeno (per citare i più noti). Allo stesso modo sarà opportuno utilizzare strumenti per “vedere” quello che l’occhio non è in grado di percepire nell’analisi biomeccanica del gesto (video e fotocamere, ergometri, ecc.)
Negli anni ’70 la scuola finlandese introdusse il concetto di steady state per identificare l’intensità del lavoro aerobico. Fu il primo tentativo di indagare verso una forma di lavoro continuativo proposto alla massima intensità entro la quale persisteva una “condizione di equilibrio” dei sistemi metabolici e omeostatici.
Il quesito, oggetto di questo lavoro, induce a chiederci:
– nel rifornimento di energia per via aerobica, il sistema si comporta sempre allo stesso modo oppure esistono variazioni al suo interno?
– Se si, quali le possibili interpretazioni teoriche e le eventuali ricadute in ambito tecnicometodologico?
4 – GLICOLISI, LIPOLISI, VO2, QUOZIENTE RESPIRATORIO, COSTO ENERGETICO
La definizione dei termini appena indicati è rimandata alla letteratura. In tale sede mi piace solo ricordare che, in situazioni fisiologiche, la concentrazione di ATP non diminuisce in modo apprezzabile durante il lavoro muscolare. Ciò comporta che la potenza metabolica di risintesi è equivalente alla velocità di scissione dell’ATP. Quando la richiesta di energia meccanica è molto intensa, la quantità di ATP riprodotta nell’unità di tempo dai processi metabolici (CP, La, O2) non è sufficiente, la sua concentrazione inizia a diminuire sino all’esaurimento della contrazione muscolare.
Tra la potenza meccanica esterna ed il consumo di ossigeno (V’O2) esiste una relazione lineare sino al raggiungimento del VO2max. L’ulteriore aumento della potenza meccanica è da addebitare all’intervento dei meccanismi anaerobici.
Se in prossimità del VO2max i muscoli traggono energia dal solo glucosio (QR=1.00), nelle attività fisiche di minore intensità possono intervenire, a diverse percentuali, anche gli acidi grassi liberi (QR=0.71 – Tale valore è relativo alla calorimetria del solo substrato. In vivo l’energia proveniente dalla combustione dei grassi è sempre miscelata con quella degli zuccheri. Per tale ragione il QR raramente scende al di sotto di 0.80). Questi (i grassi) derivano dagli adipociti, collocati nel sottocutaneo, o dai trigliceridi contenuti nelle fibre muscolari.
Nelle discipline di durata nelle quali le scorte di glicogeno possedute dall’atleta non sono sufficienti a garantire il fabbisogno di energia, riveste particolare importanza la possibilità di aumentare il consumo di grassi per minuto (potenza-aerobico-lipidica), con relativo risparmio di glicogeno, fondamentale per mantenere “acceso” il motore aerobico.
Ai fini sportivi, le proprietà funzionali e metaboliche devono essere sempre comparate con la capacità di esprimere potenza meccanica esterna nella gestualità tipica di gara. Ad alto livello, nelle discipline cicliche di durata, la variabile che differenzia il livello di prestazione degli atleti, è rappresentata dal rendimento meccanico specifico. L’allenamento deve, quindi, tendere ad eliminare, il più possibile, le interferenze e le dispersioni di forza (e di energia) nonché a utilizzare al meglio le proprietà e i sistemi più economici. In tal senso, la valutazione del costo energetico (ml O2/m/Kg) in rapporto alla potenza meccanica ci fornisce valide indicazioni sulla quantità di O2 necessario a muovere il sistema nello spazio.
A parità di potenza meccanica, un costo energetico maggiore è anche indice di maggior consumo di energia?
Non sempre. L’utilizzazione dei grassi, rispetto agli zuccheri, implica un maggior consumo di O2. Questo non vuol dire essere antieconomico. Anzi. E’ un ulteriore esempio per sostenere che un fenomeno, per essere spiegato, bisogna osservarlo in modo organico e non parcellizzato. Anche l’indagine sulla produzione di lattato ematico fornisce validi riscontri nella descrizione funzionale dell’atleta. La dinamica della sua rappresentazione grafica è speculare rispetto alla relazione tra potenza meccanica e VO2. E’ facile osservare che, allorché il rifornimento di energia è a (quasi) totale carico dei sistemi aerobici, il lattato rimane ancorato a livelli basali (1.8/2.2 mmol/l). E’ la situazione già descritta dello stato stazionario. In realtà, la condizione di equilibrio è un concetto puramente teorico, difficilmente riscontrabile in situazioni sperimentali. Anche nel corso di un lavoro ad intensità costante di tipo aerobico, infatti, i parametri fisiologici variano e si adattano in modo dinamico alle mutate condizioni organiche. Il graduale consumo di glicogeno, ad esempio, “costringe” il muscolo ad utilizzare una maggior quantità di acidi grassi. Ciò comporta la variazione (diminuzione) del quoziente respiratorio e, alla stessa intensità di lavoro esterno, l’aumento del consumo di O2.
5 – LA FREQUENZA CARDIACA
Il cuore, in condizioni fisiologiche, rappresenta il più attento rilevatore delle variazioni funzionali ed organiche. La praticità degli attuali cardiofrequenziomentri, la possibilità di interfacciare i dati in tempo reale, rendono il monitoraggio della frequenza cardiaca (comparato all’intensità del lavoro meccanico) come uno dei principali strumenti di valutazione e controllo dell’allenamento.
In sede sperimentale, per sostenere che due o più variabili sono attinenti tra loro, si fa riferimento all’indice di correlazione (R). Un valore di 0,60/0,70 è ritenuto sufficiente. L’indice di correlazione tra la variazione di FC e l’intensità di lavoro meccanico di origine aerobica è stabilmente tra 0,96 e 0,98 con punte di 0,99.
Basterebbe questo semplice dato, verificabile con qualsiasi individuo (anche non sportivo), per ritenere di grande utilità la raccolta sistematica dei dati della FC, specie nelle discipline cicliche di durata. Nei primi anni dell’attività sportiva (giovani), gli adattamenti cardio-circolatori provocano la diminuzione della FC basale, l’aumento di quella massima e, soprattutto, l’incremento della potenza meccanica a parità di regime pulsatorio. Se tutto ciò è spiegabile con le modificazioni strutturali e funzionali (centrali e periferiche) in età evolutiva e per intervalli di tempo relativamente lunghi, non lo è altrettanto per spiegare il mutato rapporto tra FC e lavoro muscolare in tempi brevi (qualche settimana), soprattutto se l’atleta ha già stabilizzato la sua morfologia. E’ evidente che le spiegazioni non sono più da ricercarsi nell’apparato cardiocircolatorio. Minore frequenza cardiaca = minore apporto di ossigeno = minore richiesta di energia = migliore rendimento meccanico. A questo riguardo sarà bene che la valutazione e il controllo siano fatti sempre nel rispetto del gesto tecnico di gara. In tal modo i valori ottenuti saranno attinenti e comparabili con la disciplina praticata.
6 – LA MASSIMA VELOCITA’ AEROBICA
I test di valutazione funzionale si prefiggono di individuare il potenziale motorio dell’atleta. L’allenamento ha l’obiettivo di utilizzarlo nel modo più efficace nel momento della competizione.
Uno degli aspetti nodali degli sport ciclici è rappresentato dal tempo entro cui un lavoro può essere svolto ad intensità costante. Indagare in questo campo non è assolutamente semplice. In condizioni di VO2max l’esercizio può essere mantenuto, da atleti specialisti del mezzofondo, tra 7 e 8’.
La velocità aerobica massima rappresenta l’intensità di lavoro meccanico in cui si sollecita al massimo il sistema aerobico, pur in presenza di quantità apprezzabili di lattato. E’ possibile individuarla con il test a carichi crescenti (Conconi) con monitoraggio della frequenza cardiaca, attraverso l’intersezione del prolungamento della retta di regressione con la parallela all’asse delle ascisse passante per il punto di massima frequenza cardiaca (fig.5). Varia tra i 5 e gli 8 mm/mol. di lattato.
fig.5 Conconi
I dati acquisiti con il gruppo di mezzofondisti e fondisti della nazionale italiana di atletica leggera, ci induce a sostenere che esiste un’ottima correlazione tra la prestazione sulla distanza dei 3.000 metri ed il valore della massima velocità aerobica ottenuta con il test appena sopra descritto (fig.6). E’ ovvio che la distanza dei 3000 metri è indicativa della massima velocità aerobica solo quando la velocità media dell’atleta supera i 20 km/h. Difatti, se si lascia immutato il tempo di impegno, a velocità progressivamente minore si è in grado di percorrere uno spazio, proporzionalmente, inferiore.
7 – L’INTENSITA’ DI MASSIMO EQUILIBRIO AEROBICO GLICIDICO
I sistemi di erogazione energetica non funzionano a compartimenti stagni. Sono sempre attivati ed il muscolo, in base alle esigenze del momento con modalità selettive, attinge dalle risorse esistenti.
Si è appena osservato che l’atleta, in condizione di lavoro prossimo al VO2max, è in grado di proseguire l’esercizio per ca. 7’ (Pèronnet). Non perché abbia esaurito le scorte di energia. Attivare al massimo il motore aerobico è possibile a condizione di mobilizzare una parte di energia dal sistema anaerobico. Il progressivo accumulo di idrogenioni (ioni H+) porta all’inibizione della contrazione muscolare, tanto da rendere impossibile il mantenimento del medesimo livello di potenza meccanica. L’intensità di lavoro aerobico che permette di utilizzare al meglio i serbatoi di glicogeno è da ricercarsi, quindi, in una frazione del VO2max, in modo che la concentrazione di lattato non sia tanto elevata da impedire la contrazione muscolare. In letteratura la soglia anaerobica viene definita come l’intensità del lavoro meccanico entro la quale non si accumulano concentrazioni importanti di lattato. Mader, per identificarla, arriva ad indicare un numero preciso (4 mmol/l).
E’ appena il caso di sottolineare che tutti i tentativi atti ad individuare con esattezza il punto di soglia non hanno prodotto riscontri certi per il semplice fatto che è difficile cercare ciò che non esiste. Si prova, in sostanza, a tradurre in un numero preciso (anche con decimali) un fenomeno di transizione dinamica. Renderebbe più aderente al vero l’idea di “area” (sia pure ristretta) entro la quale il meccanismo aerobico è sorretto dal glicogeno (QR=1.00) ed il sistema mitocondriale riesce a mantenere stabile (entro limiti sopportabili) la concentrazione di lattato. In linea teorica, l’atleta estremamente adattato, dovrebbe essere in grado di mantenere tale livello di intensità sino all’esaurimento delle scorte glucidiche. Nella realtà, i sistemi di difesa delle grandi funzioni organiche non consentono mai di esaurire totalmente le risorse disponibili. L’adattamento (allenamento) si aggiunge alle forti motivazioni personali per affinare, nell’atleta, la capacità di reclutare una percentuale sempre maggiore del potenziale motorio posseduto. Per tale ragione, il tempo nel quale gli atleti sono in grado di mantenere questa intensità di lavoro, può variare tra <20’ e >1h.
Anche per questo tipo di indagine i riscontri di campo fanno preferire l’utilizzo del test a carichi crescenti e monitoraggio della frequenza cardiaca (Conconi – fig.7).
Conconi fig.7
8 – L’INTENSITA’ DI LAVORO AEROBICO GLUCIDICO/LIPIDICO
Nel paragrafo 4., ho avuto modo di soffermarmi su alcuni aspetti per spiegare come gli acidi grassi intervengano nel lavoro muscolare. Nelle discipline sportive in cui si richiede uno sforzo continuo superiore ad un’ora, è di primaria importanza abituare il muscolo ad utilizzare (nel modo più rapido possibile) una quota di energia proveniente dai lipidi.
La raccolta di dati relativi alle proprietà motorie di vari maratoneti di livello assoluto (per alcuni i dati disponibili risalgono agli esordi della pratica sportiva), si prestano a particolari osservazioni:
a) i test di reattività neuro-muscolari (Bosco) presentano tempi di contatto molto bassi, dell’ordine di 120/140 mms.;
b) i valori dello squat jump, del contromovimento, dei 15”continui, sono altrettanto bassi (come è facile intuire), con un gradiente di forza relativa sufficiente ad una elevazione verticale di 28/33 centimetri;
c) il livello di lattato (per alcuni) si stabilizza, in pieno regime aerobico, ad un livello superiore rispetto a quello basale (3.0/3.5 mmol/l);
d) il picco di lattato ematico nell’esercizio strenuo alla massima potenza, è compreso tra 6 e 9 mmol/l.
Da un campione ristretto di dati non è corretto trarre valutazioni definitive. Allo stesso modo sono convinto che gli stessi siano almeno sufficienti a formulare qualche ipotesi:
a) i tempi di contatto molto bassi nei salti verticali successivi, dimostrano che anche i corridori di lunghe distanze sono in possesso di qualità neuro-muscolari tipiche delle fibre veloci e che, di solito, vengono considerate esclusive di saltatori e velocisti;
b) al di là delle caratteristiche reattive, tutti gli altri indici di forza muscolare sono e tendono a rimanere molto bassi, anche se sollecitati con allenamenti mirati. Segno di una netta dominanza delle fibre ossidative (e non poteva essere altrimenti);
c) i maratoneti che presentano indici di lattato relativamente elevati in stato di equilibrio aerobico è verosimile che siano in grado di sfruttare una quota di energia anaerobica nella contrazione muscolare, per poi rimetabolizzare il tutto attraverso l’imponente centrale aerobica mitocondriale. Si arriverebbe, così, ad utilizzare contemporaneamente il sistema di erogazione energetica più potente (anaerobico) con quello in assoluto più economico (aerobico mix glico-lipidico). E’ noto, poi, che le proprietà reattive favoriscono il riutilizzo di energia elastica, contribuendo ad innalzare ulteriormente il rendimento meccanico della corsa.
Le risorse umane sono ancora, in gran parte, inesplorate. Le modalità con le quali un atleta riesce a realizzare una prestazione sono, anch’esse, di difficile identificazione. I pensieri sopra espressi vogliono significare che:
– ogni atleta rappresenta un “unicum”, non ripetibile o “clonabile”;
– talvolta, si raccolgono elementi apparentemente contrastanti tra di loro e diversi dalla logica corrente;
– la teoria e la metodologia dell’allenamento è ben lungi dall’essere definita.
Ritornando, specificamente, a trattare dell’intensità di lavoro aerobico a miscela glico-lipidica, si può affermare che, in questo caso, l’analisi della frequenza cardiaca (rapportata al lavoro muscolare) non consente di raccogliere elementi utili allo scopo.
L’indagine sulla concentrazione di lattato ematico e sul consumo d’ossigeno dell’atleta a diverse intensità, costituisce un valido protocollo per individuare la zona di lavoro nella quale, fondamentalmente, il QR è frazione di 1,00 ed il lattato rimane a livelli basali.
Il grafico n.8 mostra i valori del CE registrati in due maratoneti della nazionale italiana. Il costo energetico dell’atleta C.D. è decisamente inferiore a quello dell’atleta A.O. Se la velocità di corsa viene comparata con il quoziente respiratorio (grafico n.9), i valori si invertono: l’atleta A.O. ha valori più bassi di C.D.
Nella pratica di campo, l’atleta con il quoziente respiratorio più basso è riuscito a conseguire un risultato migliore nella gara di maratona.
9 – CONCLUSIONI
Con tutte le eccezioni che il caso comporta, l’intensità del lavoro meccanico identifica la tipologia del mezzo di allenamento. La dettagliata valutazione del potenziale motorio dell’atleta permette di identificare le zone entro le quali il sistema reagisce in un determinato modo. Le fasce di lavoro in regime aerobico, da stimolare con opportuni sistemi di training, sono sostanzialmente tre (fig.10):
A – Soglia aerobica – LA 1.9/3.0 – QR 0.80/0.95 – Durata: >1h
B – Soglia anaerobica – LA 3.5/5.0 – QR 1.00 – Durata: 30’>1h
C – Velocità Aerobica Massima – LA 5.0/10.0 – QR >1.00 – Durata: 6>8’
Il processo di allenamento deve tendere a spostare verso destra (maggiore potenza meccanica) i valori dei grafici, nella considerazione che i meccanismi energetici non sono disgiunti dalle proprietà meccaniche e neuro-muscolari. A minime variazioni di intensità, possono corrispondere enormi differenze nei tempi di attivazione e nella tipologia dello stimolo allenante. Affinare la sensibilità dell’atleta alla percezione delle diverse velocità, produce notevoli effetti sul controllo motorio e sul rendimento meccanico del gesto specifico.
[prof. Piero Incalza]
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